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La Sicilia nel contesto nazionale, europeo e mondiale | PSS – Partito Socialista Siciliano
Partito Socialista Siciliano (PSS)

La Sicilia nel contesto nazionale, europeo e mondiale

di Riccardo Gueci

Il mondo attraversa una fase storica molto travagliata e piena di contraddizioni: dal riscaldamento atmosferico alle grandi migrazioni; dal dominio finanziario internazionale alla disoccupazione diffusa ed alla mortalità infantile; dall’esibizione del lusso e delle grandi ricchezze agli esodi di massa in cerca di condizioni minime di sopravvivenza. Tutte questioni che la Carta di San Francisco del 24 ottobre 1945 – atto fondativo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite – voleva affrontare e risolvere e che, invece, sono rimaste lì e talora si sono aggravate. La ragione strutturale di questo insuccesso è l’assurda attribuzione del diritto di veto riservato alle nazioni fondatrici – Stati Uniti d’America, Unione sovietica (ora Russia), Cina, Francia e Regno Unito – che ne ha impedito il pieno dispiegarsi della sua presunta terziarietà e che ne limita l’attendibilità e la priva di credibilità. A questo proposito vale ricordare le numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sui confini israeliani, che Israele disattende sistematicamente.
Il fallimento dell’Onu è testimoniato dalla interminabile guerra israelo-palestinese che da oltre 65 anni non riesce a trovare soluzioni, né si intravedono credibili prospettive di pace e di assetto condiviso di due popoli e due stati in Palestina. Le numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza rivolte ad Israele affinché rientri nei confini antecedenti la guerra del 1967 rimangono lettera morta perché lo Stato ebraico non ne vuole sapere e continua tenacemente ad estendere i propri confini occupando il suolo palestinese con gli insediamenti residenziali dei coloni nei territori della Cisgiordania. Questi tragici atteggiamenti israeliani sono sostenuti dalla lobby ebraica statunitense, che esercita negli Usa un forte potere finanziario e che condiziona la politica estera americana nello scacchiere mediorientale.
In tempi più recenti l’attenzione degli Stati Uniti è sempre più rivolta verso verso il controllo dei percorsi delle risorse energetiche russe di origine fossile, provenienti dai territori centro asiatici, stante che il controllo sulle risorse petrolifere mediorientali e libici sono abbondantemente sotto il loro controllo, tranne quelle iraniane.
Da parte sua l’Europa mantiene una posizione subalterna alla strategia Usa nel Mediterraneo, come lo è stata nella recente vicenda dei Balcani – in particolare nel Kosovo – e in questi giorni anche nella crisi Ucraina, della quale gli stessi Usa hanno svolto un ruolo attivo nel determinarla, allo scopo di arrivare al controllo delle risorse energetiche del Mar Caspio. Da qui l’aggressione potenziale nei confronti della Russia mediante l’installazione di basi militari preso tutte le nazioni dell’Est europeo, ex sovietici.
Il controllo delle residue risorse energetiche di origine fossile rimane una strategia preminente della politica estera degli Usa, piuttosto che puntare decisamente verso le fonti energetiche alternative di origine solare che almeno i prossimi cinque miliardi di anni potrebbero assicurare un potenziale interminabile di energie pulite a protezione dell’ambiente naturale ed evitare il continuo riscaldamento atmosferico. Circostanza che continua a minacciare la stabilità del clima e la sicurezza degli insediamenti umani nei territori costieri.
La subordinazione europea è ancora più marcata dallo I.s.d.s. (Investor-state dispute settlement, che sta per: Risoluzione delle controversie tra investitori e Stato), attraverso l’arbitrato di un soggetto a ciò autorizzato che per esprimere il suo giudizio segue le regole I.c.s.i.d, cioè Centro internazionale per le risoluzioni delle controversie riguardanti gli investimenti della Banca Mondiale.
Un trattato commerciale, negoziato segretamente, a tutela degli interessi delle aziende multinazionali americane in Europa e, segnatamente, nei paesi dell’Est.
Altrettanto segreto è il Tisa, il negoziato per la privatizzazione dei servizi pubblici quali la sanità, la scuola e i trasporti, che è un’articolazione del Ttip, cioè il trattato transatlantico del commercio e degli investimenti.
Infine, la razzia dell’acqua su scala mondiale, un affare stimato da Goldman Sachs in 425 miliardi di dollari e nel quale tutte le banche di Wall Street e i grandi gruppi di affare internazionale sono impegnati nella conquista di ogni sorgente, fiume, stagno, perfino pozzanghera pur di accaparrarsi “l’oro blu” o “il petrolio del futuro”. Un solo esempio, tanto per dare sommariamente l’idea delle dimensioni. George Bush senior sta acquistando i terreni che coprono la falda Guaranì, un giacimento d’acqua, compreso tra i territori del Brasile, dell’Argentina, del Paraguay e dell’Uruguay, che potrebbe fornire per 200 anni acqua potabile all’intera umanità.
Questo il quadro internazionale entro il quale si collocano le questioni europee, italiane e siciliane e nel quale la vicenda mediterranea resta, comunque, strategica ed investe direttamente le sorti della Sicilia.

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Sul versante nazionale assistiamo al continuo declino della economia e della cultura italiana per effetto della indeterminatezza degli orientamenti politici dequalificati dalla caduta delle tradizionali scuole di pensiero che avevano consentito al nostro Paese di conquistare quotazioni prestigiose in campo internazionale nel periodo della cosiddetta prima Repubblica. In quella fase storica il valore del pluralismo politico e culturale, della laicità e della sovranità nazionale erano valori assoluti e fortemente sentiti dalle masse popolari, anche se non completamente praticate a causa dei vincoli internazionali precedenti alla emanazione della Carta Costituzionale. In ogni caso hanno rappresentato un reale momento unitario del Paese dalla sua fondazione del 1860. Mai in precedenza, e peggio successivamente, l’Italia si è sentita un Paese unito e unitario.
Con l’avvento della ‘seconda’ Repubblica le divisioni del Paese sono emerse vistosamente ed hanno dato vita a forti rivendicazioni territoriali che hanno portato alla revisione frettolosa del Titolo Quinto della Costituzione con conseguenze pericolosamente gravi per il costume morale della politica a qualunque livello essa si rappresentasse. Le Regioni sono diventate il terreno dello spreco e delle ruberie di massa. Al pari delle grandi opere che costituiscono il cespite della corruzione dilagante nel mondo dell’impresa e degli affari.
Lo stesso effetto producono le emergenze che in Italia sono la normalità. Infatti, gli scandali che hanno accompagnato le vicende legate agli interventi della Protezione Civile sono lì a documentarlo. E testimoniano il fatto che, laddove non esistono regole nette e rigorose, il degrado del costume e l’abbandono della competitività producono arretramento economico e culturale, come conseguenza dello stimolo all’innovazione ed al progresso tecnico e tecnologico.
Queste ragioni oggi giustificano le demagogiche argomentazione addotte dal governo di Matteo Renzi a togliere poteri alle regioni italiane, comprese quelle a statuto speciale, a togliere spazi alla rappresentanza popolare e ad introdurre misure istituzionali che restringono gli spazi di democrazia e riducono in misura rilevante la partecipazione plurale della politica, tentando di costringerla entro ambiti bipolari che ne privano la ricchezza della varietà.
Tutti questi contorcimenti istituzionali risiedono nella ricerca della formula che garantisca la governabilità. Un tormentone che attraversa la vicenda politica italiana sin dalla prima legislatura repubblicana. Infatti, è dalla fase conclusiva della legislatura 1948-1953 che si parla del premio di maggioranza, del quale nella formulazione iniziale della cosiddetta ‘legge truffa’ era concepito in forma di sicuro accettabile rispetto alle indegne soluzioni introdotte nella recente fase, dove ad ogni legislatura viene posta la revisione della legge elettorale, le cui misure adottate sono l’una peggiore dell’altra e concorrono a segnare il declino politico del Paese.
Una forza politica nuova che volesse ricondurre l’Italia sul sentiero della stabilità democratica e della modernizzazione funzionale, nel rispetto della tradizione costituzionale dovrebbe recuperare il sistema elettorale proporzionale, corretto da alcuni minimi accorgimenti che garantiscano la governabilità, quali lo sbarramento massimo al 3 per cento e la clausola della sfiducia costruttiva, come è in Germania.
La governabilità, infatti, è una questione politica che attiene al rapporto tra governo e la sua maggioranza. Non è pensabile che il rischio di un mancato rapporto fiduciario possa essere evitato per via istituzionale. Quindi, solo se è intervenuto un accordo politico che modifica la maggioranza parlamentare con un nuovo aggregato, solo in quel caso è possibile un nuovo governo, altrimenti quello in carica continua serenamente a fare il proprio lavoro.
Tra le modifiche costituzionali che varrebbe la pena di introdurre se ne segnalano due, il primo riguarda l’abolizione della recente modifica all’articolo 81 laddove è stato introdotto un quinto comma con l’obbligo del pareggio di bilancio e l’altra un emendamento abrogativo dell’ultimo rigo dell’articolo 75, laddove tra le questione per le quali non è ammesso il referendum popolare c’è la ratifica dei trattati internazionali. Infatti, la ratifica parlamentare non garantisce le conseguenze ricadenti sui cittadini per la ragione che i parlamenti, quando va bene, cambiano ogni cinque anni, mentre i vincoli derivanti dai trattati restano sulle spalle dei cittadini, sulle loro libertà individuali e collettive nonché sulle loro tasche.
Sul terreno economico-sociale occorre imprimere una svolta netta all’infelice politica delle privatizzazioni. Gli esiti delle precedenti stanno lì a dimostrare che la nostra grande imprenditoria è incapace e produce esiti gestionali fallimentari. Ne sono prova inconfutabile le vicende Alitalia, Telecom e le varie esperienze produttive dell’ex Iri, banche comprese, purtroppo, tanto che un numero impressionante di piccole imprese ha dovuto cessare l’attività per mancanza di credito e, magari, ci ha pure rimesso la vita. Tutti fattori, però, che hanno concorso a determinare l’enorme crescita del debito pubblico.
A questo proposito è appena il caso di ricordare che l’unico ministro che nel breve spazio di un anno di governo è riuscito a ridurre di ben quindici punti l’incidenza del debito sul prodotto lordo, portandolo da 119 per cento a 104 per cento, è stato il ministro Vincenzo Visco. Dopo quella apprezzabile realizzazione, che peraltro è costata al professore Visco la carriera politica, perché aveva osato colpire gli interessi della rendita finanziaria, chiunque sia succeduto in quella posizione di governo non ha fatto altro che fare vertiginosamente crescere l’incidenza del debito sul Pil, portandola all’attuale 133 per cento. Da quando ha lasciato Visco, il debito è aumentato di ben 20 punti.
Ne consegue che il rilancio dell’economia mista pubblico-privato è la formula vincente per il recupero della ripresa dell’economia nazionale, della sua crescita e la sua innovazione competitiva.
Infatti, la competitività si gioca sul terreno della innovazione e non certamente sulla compressione dei diritti dei lavoratori. Cosa che invece, avviene sistematicamente attraverso l’attacco all’articolo 18 della legge 300/1970, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, a suo tempo promosso dal ministro socialista Giacomo Brodolini. Una grande conquista di civiltà e di progresso sociale. Mesa oggi in discussione non soltanto dalla destra reazionaria, ma dal centrosinistra riformista.

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In questo quadro d’insieme si colloca la realtà siciliana, la quale in forza della sua Autonomia istituzionale dimostra di non essere in grado di attivare lo sviluppo sociale e la crescita economica della regione.
Le ragioni di questa ‘incapacità’ sono strutturali e scaturiscono dalla natura elitaria dello spirito dello Statuto siciliano. Quello vigente – nato nel primissimo dopoguerra del conflitto 1940-1045, sotto la corposa presenza delle truppe di ‘Liberazione’ alleate e dalla presenza attiva dell’unica forza organizzata di una società disgregata e, nel suo assetto, di stampo medievale (leggasi “mafia”), al di là delle affermazioni di principio riguardanti l’autonomia legislativa – ha un impianto gestionale riservato alle centrali del potere piuttosto che un’impronta democratica che veda i territori e le masse protagoniste delle loro sorti future. Non a caso tra le tante norme manca quella che istituisce i referendum popolari o la gestione decentrata della cura del territorio e dello sviluppo socio-culturale.
La Sicilia senza una revisione statutaria in senso democratico (sussidiarietà) difficilmente potrà far segnare un impulso alla crescita e l’Autonomia sarà sempre più appannaggio delle forze parassitarie e improduttive. Le sue vere energie di progresso e di sviluppo sono più presenti nei territori piuttosto che nella istituzione autonomistica.
Il popolo siciliano è stato e tutt’ora rimane subalterno a quelle forze, comunque parassitarie, che Tomasi di Lampedusa descriveva come ‘gattopardi’ – quelli della nobiltà decadente e dell’alta borghesia – e ‘sciacalli’ – quelli emergenti dell’accaparramento arrogante e violento.
La principale riforma statutaria dovrebbe essere introdotta per abolire la facoltà gestionale attribuita al governo della Regione e trasferita ai territori (città metropolitane e consorzi di comuni), mentre al governo della Regione dovrebbero essere riservati il compito di programmazione, d’indirizzo e di verifica. La gestione degli interventi dovrebbe essere appannaggio degli organi territoriali ai quali competerebbe anche l’incombenza della progettazione degli interventi entro il quadro programmatico regionale.
Sarebbe il modo giusto per smantellare l’elefantiaco apparato amministrativo regionale e comporterebbe il trasferimento sul territorio sia dei progetti, sia della gestione, sia dei soldi e sia del personale attualmente presenti negli uffici centrali della Regione Siciliana.
Dovrebbe, altresì, essere inserito il referendum popolare, sia quello propositivo che quello abrogativo, D’altra parte quello propositivo è già stato realizzato surrettiziamente attraverso l’elezione diretta del presidente della Regione, con le conseguenze disastrose che esso ha prodotto a causa della inamovibilità del presidente eletto e garantito nella sua ‘governabilità’.
Un’altra riforma significativa dovrebbe riguardare la legge elettorale, la quale pur mantenendo la distinzione tra l’elezione diretta del presidente del governo regionale e l’altra per l’elezione dell’assemblea legislativa, la quale rappresenta l’organo istituzionale più importante perché titolare dell’Autonomia speciale, in quanto depositaria del diritto legislativo primario in tutte le materie, tranne quelle fiscali, quelle relative alla Difesa e alle relazioni Internazionali. Ciò al fine di ridare slancio e dignità all’istituto fondamentale dell’Autonomia speciale, attualmente ridotto a semplice organo di ratifica degli orientamenti del governo. Basti pensare al fatto che l’assemblea regionale non è stata capace di modificare la legge elettorale nel segno di riprendersi il suo ruolo primario.
Ove ciò non avvenisse in tempi brevissimi, occorrerà introdurre attraverso una iniziativa popolare alla integrazione dell’attuale legge elettorale con l’introduzione del referendum revocativo dell’elezione del presidente della Regione sulla base del principio “il popolo ti elegge ed il popolo ti revoca l’incarico”.
Non mi sono intrattenuto sulle questioni economiche e sulle forze produttive, né sulle questioni del lavoro, per il motivo che è assolutamente inutile affrontare un diversa ipotesi di sviluppo senza le riforme politiche. Qualsiasi ipotesi economica – in costanza di questa Regione, così com’è fatta – si tradurrebbero in azioni clientelari, assistenziali, parassitarie ed improduttive.


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