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ottobre | 2014 | PSS – Partito Socialista Siciliano
Partito Socialista Siciliano (PSS)

Archive for 24 ottobre 2014

I socialisti siciliani in piazza con la Cgil

Pietro Nenni.

Palermo, 24 ott. – (Adnkronos) – «Diceva Pietro Nenni: “meglio sbagliare stando dalla parte dei lavoratori che aver ragione contro di essi”. Ai più sarà sfuggito che alcuni sedicenti socialisti hanno ritenuto di non aderire alla manifestazione di domani indetta dalla Cgil per difendere quegli stessi diritti che proprio i socialisti, promuovendo lo Statuto dei lavoratori voluto da Giacomo Brodolini e Gino Giugni, hanno introdotto nel nostro ordinamento, portando finalmente la Costituzione nei luoghi di lavoro. I veri socialisti, a cominciare da quelli siciliani, eredi dei Fasci dei lavoratori, domani saranno in piazza con la Cgil per difendere il lavoro, la dignità e l’uguaglianza. Tra Nenni ed un carneade come Nencini, i veri socialisti stanno decisamente dalla parte di Nenni». Questo il commento dello storico esponente socialista siciliano Turi Lombardo, ex assessore regionale, a cui si asssocia anche il Partito Socialista Siciliano, che tramite il segretario regionale Antonio Matasso comunica «di aver aderito all’iniziativa della Cgil, perché i socialisti sono sempre dalla parte del progresso e del cambiamento, ma non del cambiamento “thatcheriano” basato sulla riduzione dei diritti dei lavoratori».

Esito della direzione regionale del PSS

Riccardo Lombardi.

Si è riunita a Palermo la direzione regionale del Partito Socialista Siciliano, incentrata sulla forte apprensione per la crisi economica, finanziaria e sociale che sta determinando un generale ridimensionamento del tenore di vita di un numero sempre maggiore di siciliani. «È urgente e indispensabile – affermano i socialisti del Pss – porre fine all’immobilismo dell’attuale governo regionale e realizzare le riforme strutturali necessarie al risanamento finanziario ed alla ripresa economica della Regione Siciliana, dando piena attuazione allo Statuto speciale». I socialisti siciliani, oltre a stigmatizzare il tentativo del governo nazionale di destrutturare lo Statuto dei lavoratori, voluto negli anni Settanta proprio dai fautori del socialismo democratico, hanno deliberato di organizzare una serie di iniziative volte alla ricomposizione della diaspora socialista in Sicilia ed a rapportarsi con quanti abbiano una visione dell’autonomia regionale come fattore di progresso, riaffermando la posizione del Pss a favore di un’Europa progressista dei popoli e delle regioni, ma contrapposta tanto all’Europa delle banche e della finanza, quanto al populismo della Lega Nord e delle altre forze di destra.
Il prossimo appuntamento dei socialisti siciliani è per sabato 18 ottobre alle ore 10,00 ad Enna Alta, presso la Sala Cerere in piazza Vittorio Emanuele (nei pressi della Chiesa di San Francesco d’Assisi), per celebrare il trentennale della morte del compagno Riccardo Lombardi, con un convegno dedicato all’attualità del suo riformismo in questi tempi di crisi del capitalismo. L’inziativa è organizzata dalla direzione regionale in collaborazione con i compagni ennesi.

Documento programmatico del PSS

il Programma di Gotha della SPD tedesca.

Documento programmatico di sintesi approvato dalla direzione regionale del Partito Socialista Siciliano.

Sul versante nazionale assistiamo al continuo declino della economia e della cultura italiana per effetto della indeterminatezza degli orientamenti politici dequalificati dalla caduta delle tradizionali scuole di pensiero, che avevano consentito al nostro Paese di conquistare quotazioni prestigiose in campo internazionale nel periodo della cosiddetta “Prima Repubblica”. In quella fase storica il valore del pluralismo politico e culturale, della laicità e della sovranità nazionale erano valori assoluti e fortemente sentiti dalle masse popolari, anche se non completamente praticati a causa dei vincoli internazionali precedenti alla emanazione della Carta Costituzionale. In ogni caso hanno rappresentato un reale momento unitario del Paese dalla sua fondazione del 1860. Mai in precedenza, e peggio successivamente, l’Italia si è sentita un Paese unito e unitario.
Con l’avvento della “Seconda Repubblica” le divisioni del Paese sono emerse vistosamente ed hanno dato vita a forti rivendicazioni territoriali che hanno portato alla revisione frettolosa del Titolo V della Costituzione, con conseguenze pericolosamente gravi per il costume morale della politica a qualunque livello essa si rappresentasse. Le regioni sono diventate il terreno dello spreco e delle ruberie di massa. Al pari delle grandi opere che costituiscono il cespite della corruzione dilagante nel mondo dell’impresa e degli affari.
Lo stesso effetto producono le emergenze che in Italia sono la normalità. Infatti, gli scandali che hanno accompagnato le vicende legate agli interventi della Protezione Civile sono lì a documentarlo. E testimoniano il fatto che, laddove non esistono regole nette e rigorose, il degrado del costume e l’abbandono della competitività producono arretramento economico e culturale, come conseguenza dello stimolo all’innovazione ed al progresso tecnico e tecnologico.
Queste ragioni oggi giustificano le demagogiche argomentazione addotte dal governo di Matteo Renzi a togliere poteri alle regioni italiane, comprese quelle a statuto speciale, a togliere spazi alla rappresentanza popolare e ad introdurre misure istituzionali che restringono gli spazi di democrazia e riducono in misura rilevante la partecipazione plurale della politica, tentando di costringerla entro ambiti bipolari che ne privano la ricchezza della varietà.
Tutti questi contorcimenti istituzionali risiedono nella ricerca della formula che garantisca la governabilità. Un tormentone che attraversa la vicenda politica italiana sin dalla prima legislatura repubblicana. Infatti, è dalla fase conclusiva della legislatura 1948-1953 che si parla del premio di maggioranza, il quale nella formulazione iniziale della cosiddetta “legge truffa” era concepito in forma di sicuro accettabile rispetto alle indegne soluzioni introdotte nella recente fase, dove ad ogni legislatura viene posta la revisione della legge elettorale, con misure adottate che sono l’una peggiore dell’altra e concorrono a segnare il declino politico del Paese.
Una forza politica nuova che volesse ricondurre l’Italia sul sentiero della stabilità democratica e della modernizzazione funzionale, nel rispetto della tradizione costituzionale, dovrebbe recuperare il sistema elettorale proporzionale, corretto da alcuni minimi accorgimenti che garantiscano la governabilità, quali lo sbarramento massimo al 3 per cento e la clausola della sfiducia costruttiva, come è in Germania.
La governabilità, infatti, è una questione politica che attiene al rapporto tra governo e la sua maggioranza. Non è pensabile che il rischio di un mancato rapporto fiduciario possa essere evitato per via istituzionale. Quindi, solo se è intervenuto un accordo politico che modifica la maggioranza parlamentare con un nuovo aggregato, solo in quel caso è possibile un nuovo governo, altrimenti quello in carica continua serenamente a fare il proprio lavoro.
Tra le modifiche costituzionali che varrebbe la pena di introdurre se ne segnalano due: la prima riguarda l’abolizione della recente modifica all’articolo 81 della Costituzione, laddove è stato introdotto un quinto comma con l’obbligo del pareggio di bilancio, la seconda è un emendamento abrogativo dell’ultimo rigo dell’articolo 75, laddove tra le questioni per le quali non è ammesso il referendum popolare c’è la ratifica dei trattati internazionali. Infatti, la ratifica parlamentare non garantisce le conseguenze ricadenti sui cittadini per la ragione che i parlamenti, quando va bene, cambiano ogni cinque anni, mentre i vincoli derivanti dai trattati restano sulle spalle dei cittadini, sulle loro libertà individuali e collettive nonché sulle loro tasche.
Sul terreno economico-sociale occorre imprimere una svolta netta all’infelice politica delle privatizzazioni. Gli esiti delle precedenti stanno lì a dimostrare che la nostra grande imprenditoria è incapace e produce esiti gestionali fallimentari. Ne sono prova inconfutabile le vicende Alitalia, Telecom e le varie esperienze produttive dell’ex Iri, banche comprese, purtroppo, tanto che un numero impressionante di piccole imprese ha dovuto cessare l’attività per mancanza di credito e, magari, ci ha pure rimesso la vita. Tutti fattori, però, che hanno concorso a determinare l’enorme crescita del debito pubblico.
A questo proposito è appena il caso di ricordare che l’unico ministro che nel breve spazio di un anno di governo è riuscito a ridurre di ben quindici punti l’incidenza del debito sul prodotto lordo, portandolo dal 119 per cento al 104 per cento, è stato il ministro Vincenzo Visco. Dopo quella apprezzabile realizzazione, che peraltro è costata al professore Visco la carriera politica, perché aveva osato colpire gli interessi della rendita finanziaria, chiunque gli sia succeduto in quella posizione di governo non ha fatto altro che fare vertiginosamente crescere l’incidenza del debito sul Pil, portandola all’attuale 133 per cento. Da quando ha lasciato Visco, il debito è aumentato di ben 20 punti.
Ne consegue che il rilancio dell’economia mista pubblico-privato è la formula vincente per il recupero della ripresa dell’economia nazionale, della sua crescita e la sua innovazione competitiva.
Infatti, la competitività si gioca sul terreno della innovazione e non certamente sulla compressione dei diritti dei lavoratori. Cosa che invece, avviene sistematicamente attraverso l’attacco all’articolo 18 della legge 300/1970, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, a suo tempo promosso dal ministro socialista Giacomo Brodolini. Una grande conquista di civiltà e di progresso sociale. Mesa oggi in discussione non soltanto dalla destra reazionaria, ma dal sedicente centro-sinistra riformista di oggi.
In questo quadro d’insieme si colloca la realtà siciliana, la quale in forza della sua Autonomia istituzionale dimostra di non essere in grado di attivare lo sviluppo sociale e la crescita economica della regione.
Le ragioni di questa “incapacità” sono strutturali e scaturiscono dalla natura elitaria delle interpretazioni dello Statuto siciliano. Quello vigente – nato nel primissimo Dopoguerra del conflitto 1940-1945, sotto la corposa presenza delle truppe di “Liberazione” alleate e dalla presenza attiva dell’unica forza organizzata di una società disgregata e, nel suo assetto, di stampo medievale (leggasi “mafia”), al di là delle affermazioni di principio riguardanti l’autonomia legislativa – è stato letto secondo un impianto gestionale riservato alle centrali del potere piuttosto che uin base alla sua autentica impronta democratica, che doveva vedere i territori e le masse protagoniste delle loro sorti future. Non a caso manca una norma che istituisce i referendum popolari o la gestione decentrata della cura del territorio e dello sviluppo socio-culturale.
La Sicilia senza una revisione statutaria in senso democratico (sussidiarietà) difficilmente potrà far segnare un impulso alla crescita e l’Autonomia sarà sempre più appannaggio delle forze parassitarie e improduttive. Le sue vere energie di progresso e di sviluppo sono più presenti nei territori piuttosto che nella istituzione autonomistica come è stata malamente realizzata.
Il popolo siciliano è stato e tutt’ora rimane subalterno a quelle forze, comunque parassitarie, che Tomasi di Lampedusa descriveva come “gattopardi” – quelli della nobiltà decadente e dell’alta borghesia – e “sciacalli” – quelli emergenti dell’accaparramento arrogante e violento.
La principale riforma statutaria dovrebbe essere introdotta per abolire la facoltà gestionale attribuita al governo della Regione e trasferirla ai territori (città metropolitane e consorzi di comuni), mentre al governo della Regione dovrebbero essere riservati il compito di programmazione, d’indirizzo e di verifica. La gestione degli interventi dovrebbe essere appannaggio degli organi territoriali ai quali competerebbe anche l’incombenza della progettazione degli interventi entro il quadro programmatico regionale.
Sarebbe il modo giusto per smantellare l’elefantiaco apparato amministrativo regionale e comporterebbe il trasferimento sul territorio sia dei progetti, sia della gestione, sia dei soldi e del personale attualmente presenti negli uffici centrali della Regione Siciliana.
Dovrebbe, altresì, essere inserito il referendum popolare, sia quello propositivo che quello abrogativo, rivedendo al contempo l’istituto dell’elezione diretta del presidente della Regione, considerate le conseguenze disastrose che esso ha prodotto a causa della inamovibilità del presidente eletto e garantito nella sua “governabilità”.
Un’altra riforma significativa dovrebbe riguardare la legge elettorale, la quale pur mantenendo la distinzione tra l’elezione diretta del presidente del governo regionale e l’altra per l’elezione dell’assemblea legislativa, la quale rappresenta l’organo istituzionale più importante perché titolare dell’Autonomia speciale, in quanto depositaria del diritto legislativo primario in tutte le materie, tranne quelle fiscali, quelle relative alla Difesa e le relazioni internazionali. Ciò al fine di ridare slancio e dignità all’istituto fondamentale dell’Autonomia speciale, attualmente ridotto a semplice organo di ratifica degli orientamenti del governo. Basti pensare al fatto che l’Assemblea regionale non ò stata capace di modificare la legge elettorale nel segno di riprendersi il suo ruolo primario.
Ove ciò non avvenisse in tempi brevissimi, occorrerà introdurre nel dibattito, attraverso una iniziativa popolare, una proposta di integrazione dell’attuale legge elettorale con l’introduzione del referendum revocativo dell’elezione del presidente della Regione sulla base del principio: «il popolo ti elegge ed il popolo ti revoca l’incarico».
Com’è di tutta evidenza il terreno d’intervento politico è assai vasto: È necessario riprendere temi che nel dibattito pubblico sono assenti ma che necessitano di un rilancio forte per segnare un nuovo processo di riforme necessarie ed urgenti per lo sviluppo sociale e civile della Sicilia.

 

Tipologia di adesione