Servizio dell’emittente regionale Onda TV (canale 85 del digitale terrestre, in tutta la Sicilia) dedicato al convegno del Partito Socialista Siciliano svoltosi sabato 17 agosto a Galati Mamertino (ME) su “Riccardo Lombardi, il riformista rivoluzionario”, andato in onda nel telegiornale del 19 agosto, a cui anno partecipato Angelo Morello, il regista cinematografico Vittorio Sindoni ed Antonio Matasso.
Archive for 19 agosto 2013
Riccardo Lombardi ad AM Notizie
Servizio dell’emittente regionale Antenna del Mediterraneo (canale 14 del digitale terrestre in provincia di Messina, 71 in Sicilia centrale ed occidentale, 111 nella Sicilia sud-orientale) dedicato al convegno del Partito Socialista Siciliano svoltosi sabato 17 agosto a Galati Mamertino (ME) su “Riccardo Lombardi, il riformista rivoluzionario”, andato in onda nel telegiornale del 19 agosto, a cui anno partecipato Angelo Morello, il regista cinematografico Vittorio Sindoni ed Antonio Matasso.
Perché c’è bisogno di socialismo
Riceviamo e pubblichiamo una riflessione del compagno Gaetano Zingales, presidente del Circolo socialista “Monti Nebrodi” e componente del coordinamento regionale del Partito Socialista Siciliano.
Il governo di centro-sinistra degli anni novanta – pur nelle difficoltà delle convergenze politiche – riusciva a rispondere alle esigenze della nazione: il tasso di disoccupazione rientrava nei limiti della sopportabilità, i servizi sociali, pur annaspando, riuscivano a svolgere un ruolo che la gente, tra i necessari mugugni, accettava e sopporta, la lira era quotata bene, l’Italia era tra le prime sette nazioni a livello mondiale, le famiglie vivevano dignitosamente.
L’annientamento dei partiti, che avevano restituito all’Italia la dignità di nazione libera e democratica, consegnò la gestione politica ed economica nelle mani di un governo di centro destra, che, nel volgere di qualche lustro, stravolse il modo di vivere delle persone comuni. Le aziende cominciarono a licenziare lavoratori, ma non si tirarono indietro neanche quelle a capitale pubblico pur di sanare i loro bilanci, l’avvento dell’euro diede la mazzata finale alle tasche della gente, i “furbi” (esercenti, commercianti, artigiani) con grande noncuranza, chiesero un euro (quasi il doppio della lira) per un prodotto o un lavoro che prima costava mille lire. La crescente disoccupazione e l’impennata del costo della vita avviarono l’Italia verso la crisi economica e sociale, tuttora in “auge”. La finanza nazionale, al seguito di quella internazionale, ritenne “doveroso” di accentuare la politica di difesa “criminogena” dei propri interessi condizionando pesantemente il costo del denaro e la politica economica del Paese. Il freno ai rinnovi contrattuali di categoria ed il blocco delle pensioni all’aggancio annuale della dinamica della scala mobile colpirono il ruolo dei sindacati confederali, i quali si sono trovati impotenti nella rivendicazione dei sacrosanti diritti dei lavoratori e degli ex lavoratori in nome degli editti della classe politica al timone, che predicava il contenimento dei salari e delle pensioni in nome della grave crisi economica e del debito pubblico. Ma nulla ha fatto, quella stessa dirigenza politica, di fronte allo scandalo delle pensioni d’oro per manager e boiardi dello Stato. I fenomeni tangentizi, di corruzione, di comportamento amorale e di allegro stile di vita da parte di alcuni personaggi delle istituzioni, conobbero il loro fertile brodo di coltura superando il livello di quelli scoperchiati dal cosiddetto periodo di “mani pulite”.
Una simile congèriedi pesante realtà e di comportamenti anomali ha condotto gli italiani alla disaffezione verso i partiti politici. Ne è una chiara prova la bassa percentuale di elettori che si recano al voto. A cui occorre aggiungere il cosiddetto voto di protesta in favore di neo-formazioni e movimenti politici.
Oggi, l’Italia è ancora in piena crisi economica e politica nonostante i decenni trascorsi in tale stato di fatto. La disoccupazione giovanile, e non, ha toccato i più elevati parametri dal dopoguerra in poi, le famiglie monoreddito non riescono a mettere insieme pane con companatico sino alla fine del mese, la povertà è entrata in molte case di italiani che prima avevano la fortuna di permettersi un dignitoso tenore di vita, i servizi socio-sanitari e quelli dell’ambiente, che realizzano la qualità della vita di ogni comunità, sono entrati nell’occhio del ciclone di ogni cittadino.
La Sicilia è tra le regioni che più pesantemente ha subito le conseguenze di una cattiva gestione della “cosa pubblica”, la quale si è abbattuta soprattutto sui giovani in cerca di lavoro. Non stiamo qui a rammentare le notizie dolorose che giornalmente la cronaca locale ci fornisce, che sono lo specchio di una pesantissima situazione di disagio sociale.
C’è un “grido di dolore” che viene dal basso e che invoca giustizia sociale, che chiede di lavorare nella propria terra, la qualcosa agevolerebbe tra l’altro la possibilità di formarsi una famiglia in età ragionevole e, soprattutto, eviterebbe il dolore di dovere emigrare, fuori dai confini della nazione siciliana, divenendo un emarginato in una regione del nord, se non in terra straniera. Non ritengo una forzatura o un termine inappropriato nel definire la Sicilia una nazione sia per la sua millenaria storia, che tale l’ha tipizzata, sia perché dotata di uno Statuto, che, se interamente applicato e rispettato, potrebbe favorire una gestione autonoma delle proprie risorse e di quelle di provenienza statale ed europea. Ma così, purtroppo, non è.
Ritengo, quindi, una felice intuizione quella di ridar vita alla formazione del Partito Socialista Siciliano, che, nelle sue finalità, vuole sposare i valori del socialismo – quelli appunto della giustizia sociale, della solidarietà, del lavoro, dell’uguaglianza – a quegli altri insiti nei movimenti e partiti indipendentistici per la piena applicazione dello Statuto Siciliano. Fare cioè gli interessi dei siciliani magari scontrandosi con il potere centrale. Un compito arduo senz’altro che, a tratti, collide con il coinvolgimento di coloro che coltivano un proprio orticello sognando di gestire una qualche forma di potere. Ma occorre convincersi che è primaria un’azione comune in difesa del bistrattato popolo siciliano. Ogni orgoglio di bandiera deve incontrarsi con i valori del socialismo calati nella terra di Sicilia.
Il progetto del Partito Socialista Siciliano, che uscirà dal futuro Congresso Regionale, dovrà comprendere – a mio modesto parere – l’incontro con le forze autenticamente autonomistiche e con le varie anime locali, nelle loro multiformi declinazioni, che si richiamano all’ideologia socialista. Ritengo, pertanto, che sia opportuno, a tempo debito, promuovere una convention dei soggetti politici summenzionati, dalla quale possa uscire una volontà unitaria di lottare per la Sicilia ed i siciliani con l’adozione di una piattaforma programmatica da realizzare nel breve e medio tempo. Non vanno esclusi, però, il dialogo e la convergenza su temi specifici attinenti agli interessi dell’isola con quei partiti politici disponibili a recepire le istanze autonomistiche e delle rivendicazioni socio-economiche della neo formazione partitica siciliana.
Mi piace concludere questa nota riportando il passaggio contenuto in una recensione di Teresa d’Aniello al saggio, “Diversamente ricchi”, del giornalista economico Carlo Patrignani, riferito al pensiero di un grande socialista siciliano: Riccardo Lombardi. Il quale descriveva una società laica dal volto umano con al centro la persona, la vita e il suo benessere, »una società fondata sul rapporto interumano e non sulla dimensione economica, rispetto al sistema capitalistico volto alla produzione e consumo di beni a forte profitto. Un modello che mirasse alla produzione di beni durevoli e al lavoro per tutti, alla piena occupazione, costruendo un sistema produttivo diverso in cui il lavoro venisse ripartito equamente fra tutta la popolazione. Una nuova concezione di progresso e di crescita».
È quello di cui hanno necessità la Sicilia ed i siciliani.
Per tutto quanto sopra scritto, si sente l’esigenza, da più parti invocata, di tornare ai principi del Socialismo Internazionale, libertario, autenticamente democratico, riformista e che persegue l’eguaglianza nella società dei poveri, dei meno poveri e dei ricchi. Principi, a volte razzolati dal maggiore partito italiano della sinistra, il PD, ma non praticati!
GAETANO ZINGALES
Il PSS ricorda Riccardo Lombardi
Si è svolto sabato 17 agosto presso la Sala consiliare “Salvatore Carnevale” di Galati Mamertino, in provincia di Messina il convegno regionale organizzato dal Partito Socialista Siciliano su Riccardo Lombardi, leader storico della sinistra socialista, già segretario del Partito d’Azione e ministro per il Psi. Sono intervenuti Antonio Matasso, docente universitario e presidente della Fondazione socialista antimafia “Carmelo Battaglia”. Durante i lavori sono stati presentati due saggi del giornalista Carlo Patrignani, dal titolo “Lombardi e il fenicottero” e “Diversamente ricchi”, dedicati al compianto esponente socialista, nato a Regalbuto, in provincia di Enna, il 16 agosto 1901. In apertura è stato proiettato anche un videomessaggio di Valdo Spini, presidente della Fondazione Circolo Rosselli, già vice segretario del Psi e ministro. Nel dibattito è intervenuto anche il regista cinematografico Vittorio Sindoni, il quale ha ricordato, su invito di Antonio Matasso e con accenni accorati, la sua frequentazione con Riccardo Lombardi, da lui conosciuto poco tempo dopo il suo trasferimento a Roma. Alla fine del convegno, lo stesso Matasso, dopo una dettagliata ricostruzione della prassi e del pensiero lombardiani, ha dato appuntamento ad ottobre per la consegna del premio intitolato al sindacalista socialista galatese Salvatore Carnevale, promosso dalla Fondazione socialista antimafia “Carmelo Battaglia”.
Damnatio memoriae su Fantina
Riceviamo e pubblichiamo un altro articolo del compagno Ignazio Coppola, componente del Comitato promotore del Partito Socialista Siciliano, dedicato ad un’altra pagina poco nota della storia post-unitaria: l’eccidio di Fantina, avvenuto nell’agosto del 1862 nel piccolo borgo del comune di Fondachelli-Fantina, in provincia di Messina.
Fra le tante verità negate dalla storiografia ufficiale del risorgimento in Sicilia ossia, gli eccidi, nell’agosto del 1860, di Bronte, di Biancavilla e dei paesi del circondario etneo ad opera del generale garibaldino Nino Bixio ed ancora la rivoluzione repressa nel sangue di Alcara Li Fusi, nel maggio dello stesso anno, ad opera di un altro generale garibaldino Giovanni Interdonato e di cui troviamo traccia nel libro di Vincenzo Consolo “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e le successive rivolte anch’esse annegate nel sangue dal generale Pietro Quintino a Castellammare del Golfo il 3 gennaio del 1862 (rivolta dei cutrara) e poi ancora quella di Palermo del settembre del 1866 detta del sette e mezzo (durò infatti 7 giorni e mezzo) in cui, in una Sicilia tenuta, di volta in volta, in perenne stato d’assedio sino alla rivolta dei fasci siciliani, furono massacrati migliaia e migliaia di palermitani dalle truppe piemontesi del generale Raffaele Cadorna, ve n’è una passata anch’essa nel dimenticatoio della storia del nostro risorgimento che va sotto il nome di eccidio di Fantina.Un eccidio che la dice tutta sui barbari e sanguinari metodi, di chiara impronta nazista, dell’esercito italo- piemontese e che ebbe luogo appunto a Fantina nell’agosto 1862 in concomitanza ai fatti di Aspromonte che, come tutti sanno, si conclusero con il ferimento di Garibaldi ad opera dei bersaglieri del generale Pallavicini che aveva avuto, dal re galantuomo Vittorio Emanuele II° l’ordine perentorio di fermare a tutti i costi, anche al prezzo di un bagno di sangue, l’avanzata dei garibaldini che si avviavano verso la città eterna al grido di “Roma o morte”. Una scarica di fucileria alle pendici dell’Aspromonte, richiamò all’ordine sabaudo i bollenti spiriti degli illusi garibaldini e ne fermò l’avanzata. Ed è da quel momento l’esercito regio apre una vera e propria caccia ai garibaldini perpetrando nei loro confronti arresti , repressioni e deportazioni. Quasi duemila volontari, per lo più ,siciliani e meridionali, vengono arrestati ed assieme a diversi militari che avevano abbandonato i loro reparti per unirsi a Garibaldi vengono deportati e rinchiusi nelle fortezze dell’antico regno sabaudo tra le quali la più triste e nota era quella di Fenestrelle nell’Alta Savoia a più di 2mila metri dall’altezza e da cui per la rigidità del clima e per il barbaro stato di detenzione era difficile uscirne vivi.Ed è in questo contesto della caccia spietata ai garibaldini dopo i fatti Aspromonte che avvenne appunto l’ignobile eccidio di Fantina ad opera del 47° reggimento di fanteria sabaudo agli ordini del maggiore Giuseppe De Villalta nei confronti di una colonna di garibaldini guidata dal palermitano Carlo Trasselli, il quale, dopo aver inutilmente cercato di raggiungere Garibaldi in Calabria , saputo l’infelice esito dell’impresa , rassegnato si accingeva a raggiungere Novara di Sicilia per consegnare le armi al sindaco di quel paese. Nella marcia di avvicinamento a Novara la colonna si disperse ed una parte di essa esausta si fermò a riposare, trovando rifugio nelle case e nella chiesetta di Fantina.un piccolo centro della provincia di Messina. E la notte tra il 2 e 3 settembre che i fuggiaschi furono circondati e sorpresi nel sonno dai piemontesi. Circondati si arresero e quando furono tutti in piedi il comandante sabaudo maggiore Giuseppe De Villalta si fece loro incontro dicendo: «Volontari se in mezzo a voi si celano dei disertori si facciano avanti. Il re li perdona e li lascerà immediatamente raggiungere i loro corpi».Illusi dalle promesse di quell’uomo senza dignità e senza alcun onore si fecero avanti in sette e immediatamente circondati e messi in disparte furono richiesti del nome e del corpo d’appartenenza da cui avevano disertato. Fu a quel punto che la Jena, calpestando il codice d’onore e ogni elementare norma d’umanità rivelò il suo ignobile volto e rivolgendosi a quei poveretti, che si erano illusi delle sue convincenti promesse, così si pronunciò: «Soldati voi siete spergiuri verso la patria e il re. In nome della legge militare vigente, voi siete condannati alla pena di morte da eseguirsi all’istante. Disertori, vi concedo dieci minuti da dedicare alla preghiera».Inutili furono le proteste di quei poveri sventurati che alla fine chiesero, prima di essere fucilati, di potere scrivere due righe come ultimo pensiero ai propri cari e soprattutto, Costante Bianchi il più giovane dei sette, appena diciottenne, che implorò sino alla fine, rivolto al plotone che stava per fucilarlo, di poter lasciare un ultimo messaggio di saluto alla amata madre «Soldati – disse per l’ultima volta il giovane – il voto dei morenti è sacro. Se avete una madre che amate anche voi, lasciate che io scriva una parola alla mia».Fu tutto inutile: Giuseppe De Villalta, vile iena assetata di sangue, fu irremovibile rispondendo così alla supplichevoli richieste dei condannati a morte: «Siete solo briganti e non meritate altro che piombo nello stomaco». Al terzo rullo di tamburo una scarica di fucileria pose fine alla vita di quelle giovani vittime. I corpi di quei sette martiri: Giovanni Balestra,Costante Bianchi, Giovanni Botteri, Giovanni Cerretti, Ulisse Grazioli, Barnaba della Momma e Giovanni Panieri, furono sepolti sotto il sagrato della chiesa di Fantina e sono ricordati da una lapide commemorativa collocata sulla facciata della chiesa. Nel settembre del 2000 infine nel luogo dell’eccidio è stato eretto un cippo con i loro nomi a perenne ricordo di quell’atto di viltà e di barbarie: Quegli atti di viltà e di barbarie che i piemontesi, all’alba dell’Unità d’Italia, perpetrarono con massacri e stragi a danno delle popolazioni meridionali nel nome del Re galantuomo il quale, per l’inaudito eccidio di Fantina, non si risparmiò di dispensare promozioni (De Villanata da maggiore fu promosso colonnello) e riconoscimenti ai disumani e crudeli protagonisti di quell’atto infame e negazione di ogni umana pietà . Dall’eccidio di Fantina riuscì a salvarsi per miracolo colui che diverrà poi un’icona dell’anarchismo e tra i fondatori del socialismo italiano Amilcare Cipriani, il quale in seguito eletto deputato nel partito socialista non occupò mai il suo seggio per non prestare giuramento al re. Cipriani disertore due volte nella spedizione dei mille prima ed in quella d’Aspromonte poi e che in quel frangente faceva parte della colonna Trasselli, assistette impotente alla barbara esecuzione dei suoi compagni dall’alto di una collina. Qualche anno più avanti Pietro Castagna un altro garibaldino sopravvissuto a quell’eccidio da testimone ricostruì, per conto del giornale di Brescia “Il fascio della democrazia”, con puntualità tutti i terribili particolari di quella drammatica giornata. E ancora più di recente infine, il giornalista Antonio Ghirelli da poco scomparso a quell’avvenimento ha dedicato nel 1986 edito da Sellerio un saggio dal titolo “L’eccidio di Fantina”. Per il resto di questo infame atto di viltà compiuto dall’esercito piemontese non vi è la minima traccia obliato nei partigiani resoconti della storiografia ufficiale e scolastica. La damnatio memoriae ha colpito ancora.
IGNAZIO COPPOLA
Bronte: un eccidio da non dimenticare
Riceviamo e pubblichiamo un articolo del compagno Ignazio Coppola, componente del Comitato promotore del Partito Socialista Siciliano, che ricorda i tragici fatti di Bronte, da cui sono trascorsi centocinquantatré anni.
Dal 6 al 9 agosto del 1860 esattamente 153 anni fa a Bronte Nino Bixio, su mandato di Giuseppe Garibaldi, si rendeva protagonista di un atto scellerato ed infame che la storia quella vera e non quella paludata della storiografia ufficiale e scolastica ci ha tramandato e condannato come “l’eccidio di Bronte”.
Ciò val bene per ricordare e non dimenticare su come i “liberatori” quali Nino Bixio intendevano trattare i siciliani e soprattutto, i contadini illusi dalla promesse dei decreti garibaldini sulla assegnazione delle terre, convinti che, finalmente, con l’arrivo di Garibaldi e delle camicie rosse potessero legittimamente essere garantiti i principi di libertà e di giustizia sociale In quel maledetto e torrido agosto del 1860 ai siciliani ed ai brontesi, speranzosi che per loro le cose sarebbero cambiate in meglio, mal gliene incolse. A farli ravvedere dalle loto aspettative provvide alla bisogna il paranoico generale garibaldino che certo dei siciliani non aveva gran considerazione e stima se è vero che, alla moglie Adelaide, durante l’impresa dei mille così ebbe tra l’altro testualmente a scrivere a proposito della Sicilia e dei siciliani: “Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”. E con questo stato d’animo e questa predisposizione nei confronti dei siciliani che Bixio si presentò a Bronte prendendo, per tre giorni alloggio al collegio Capizzi, la mattina del 6 agosto, con due battaglioni di bersaglieri per ristabilire l’ordine che era stato turbato nei giorni precedenti dai popolani e dai contadini-vassalli della ducea di Nelson che illusi si erano ribellati rivendicando il diritto all’assegnazione delle terre ed al riscatto sociale promesso loro dai truffaldini decreti garibaldini
All’avanzata di Garibaldi in Sicilia e con la illusoria promessa di una più equa distribuzione delle terre furono molti infatti i paesi che come Bronte insorsero al grido “abbassu li cappeddi, vulimi li terri”, quali tra gli altri: Regalbuto, Polizzi Generosa, Tusa, Biancavilla, Racalmuto, Nicosia, Cesarò, Randazzo, Maletto, Petralia, Resuttano, Montemaggiore, Castelniovo, Capaci, Castiglione, Centuripe, Collesano, Mirto, Caronia, Alcara Li Fusi, Nissoria, Mistretta, Cefalù, Linguaglossa, Trecastagni e Pedara.
Le aspettative del popolo e dei contadini nei confronti dei “cappeddi” (i latifondisti ed i ricchi proprietari terrieri) furono represse in quei paesi con il piombo e nel sangue da quei garibaldini che avevano promesso loro: terre, libertà e giustizia. Quello stesso piombo che, 34 anni dopo nel 1894, l’ex garibaldino Francesco Crispi che era stato prima segretario di stato e teorico della spedizione dei Mille e successivamente dopo l’Unità divenuto presidente del Consiglio, ordinò di scaricare sui contadini siciliani che rivendicavano le terre e reprimendo così nel sangue con centinaia di vittime innocenti l’epopea dei Fasci Siciliani. A distanza di anni con pedissequa ferocia, di fatto, si riproponeva, ancora una volta, in un bagno di sangue, la logica della difesa del privilegio e della conservazione perché nell’ottica gattopardiana nulla cambiasse, prima con Garibaldi e poi con Crispi
Ma torniamo ai fatti e al grido di libertà dei contadini e dei cittadini di Bonte..Su pressione del console inglese di Catania John Goodwin, a sua volta sollecitato dai fratelli Thovez amministratori della ducea per conto della baronessa Bridport, Garibaldi, costi quel che costi, per reprimere la rivolta di quei brontesi che avevano avuto l’impudenza di ribellarsi agli inglesi suoi protettori e finanziatori dell’impresa dei Mille invia per risolvere la questione ed assolvere questo sporco lavoro, come era nelle sue attitudini ed abitudini, il suo fedele luogotenente Nino Bixio.
Appena giunto, come primo atto, il “liberatore” (degli interessi degli inglesi e non dei contadini e dei siciliani) Bixio decretò lo stato d’assedio e la consegna delle armi imponendo una tassa di guerra dichiarando il paese di Bronte colpevole di “lesa umanità” dando inizio a feroci rappresaglie senza concedere alcuna minima garanzia e guarentigia alla cittadinanza. I nazisti ottant’anni dopo prenderanno lezioni da questi metodi dei “liberatori” garibaldini. Bisognava dimostrare ai “padroni” inglesi che nessuno poteva toccare impunemente i loro interessi. E il paranoico “servo” con i suoi metodi criminali li accontentò appieno. Si passò ad una farsa di processo e tutto fu liquidato in poco tempo senza riconoscere alcun diritto alla difesa discutendo e dibattendo il tutto in appena quattro ore.
Alla fine, alle 8 di sera del 9 agosto, calpestando ogni simulacro di garanzia, era già tutto deciso con la condanna a morte di cinque cittadini che niente avevano avuto a che fare con i tumulti e le rivolte delle precedenti giornate che avevano turbato la tranquillità ed il sonno degli inglesi in quel di Bronte.
I cinque, la mattina del giorno dopo il 10 agosto, nella piazzetta della chiesa di San Vito finirono vittime innocenti dinanzi al plotone d’esecuzione. L’avvocato Nicolò Lombardo notabile del paese che, da vecchio liberale, con tanta speranza aveva atteso lo sbarco garibaldino sognando un futuro migliore per la sua terra dovette ricredersi in quell’attimo che la scarica di fucileria spense quel suo sogno e per l’avvenire il sogno di tanti siciliani. Con lui morirono Nunzio Spitaleri Nunno, Nunzio Samperi Spiridione, Nunzio Longhitano Longi, Nunzio Ciraldo Fraiunco. Quest’ultimo era lo scemo del paese che sopravvisse alla scarica di fucileria e invocando vanamente la grazia fu finito cinicamente con un colpo di pistola alla testa dall’ufficiale che aveva comandato il plotone.
Dopo la feroce esecuzione,a monito per la popolazione di Bronte, i corpi delle vittime rimasero esposti ed insepolti per parecchio tempo. Ma non era finita, a questo primo processo sommario ne seguì un altro altrettanto persecutorio e vessatorio nei confronti di coloro che avevano arrecato oltraggio ai grossi proprietari terrieri e agli inglesi della ducea. Il processo che si celebrò presso la Corte di Assise di Catania si concluse nel 1863 con 37 condanne esemplari di cui 25 ergastoli. Giustizia era stata fatta. I poveracci non avrebbero più alzata la testa.
Il 12 Agosto, dopo avere fatto affiggere precedentemente il 9 agosto a suo nome un proclama indirizzato ai comuni della provincia di Catania con il quale invitava i contadini a stare buoni e a tornare al lavoro nei campi pena ritorsioni e feroci rappresaglie, Nino Bixio ribadiva che: “gli assassini e i ladri di Bronte sono stati puniti e a chi tenta altre vie crede di farsi giustizia da sé, guai agli istigatori e ai sovvertitori dell’ordine pubblico. Se non io, altri in mia vece rinnoverà le fucilazioni di Bronte se la legge lo vuole” Proclami e avvisi tendenti ad rassicurare baroni, latifondisti, proprietari terrieri e soprattutto gli inglesi che, con Garibaldi e Bixio, non c’era alcun pericolo di rivolte sociali. La rivoluzione garibaldina aveva mostrato il suo volto. Gli interessi della borghesia, dei latifondisti, degli inglesi che facevano affari in Sicilia e di quei settentrionali che in nome di Vittorio Emanuele in futuro li avrebbero fatti erano salvi e salvaguardati dalle camicie rosse.
E dire che a questi personaggi, come Nino Bixio e Giuseppe Garibaldi, i siciliani con un masochismo degno di miglior causa hanno dedicato una infinità di via strade, piazze, scuole, monumenti e quant’altro a significativa memoria che da sempre siamo affetti dalla sindrome di Stoccolma ossia quella di innamoraci dei nostri carnefici. E ora di finirla. Prendendo coscienza e consapevolezza della nostra vera storia è giunto il momento di buttare giù lapidi, e disarcionare dai monumenti questi personaggi che dipinti come falsi eroi ci hanno depredato della nostra economia, della nostra storia, della nostra cultura e della nostra identità. I tribunali della storia che per fortuna sicuramente non sono quelli dei processi sommari di Bronte alla fine certamente condanneranno per i loro crimini questi personaggi: Anticipiamo sin da ora le sentenze e buttiamoli giù dai loro piedistalli.
Per quanto riguarda infine Gerolamo Bixio detto Nino pochi sanno che alla fine la giustizia divina, per le sue malefatte, più di quella degli uomini gli presentò un conto salato facendolo morire tra atroci dolori, sofferenze e tormenti in preda alla febbre gialla ed al colera a bordo della sua nave( s’era dato ai commerci con l’Oriente))il 16 dicembre del 1873, a Banda Aceh nell’isola di Sumatra, a quel tempo colonia olandese. Il suo corpo infetto chiuso in una cassa metallica fu sepolto nell’isola di Pulo Tuan che nella lingua locale significa isola del Signore. Successivamente tre indigeni, credendo di trovare qualche tesoro, disseppellirono la cassa denudarono il cadavere e poi lo riseppellirono vicino ad un torrente. Due di loro, infettati dal colera morirono nel breve giro di 48 ore. Anche da morto Bixio era riuscito a fare delle vittime. Roba da Guinnes dei primati. I pochi resti del suo corpo ed alcune ossa, grazie al terzo indigeno sopravvissuto alla maledizione, vennero ritrovati nel giugno del 1876. Il 10 maggio del 1877 quello che rimaneva dei resti del massacratore di Bronte, veniva cremato nel consolato italiano di Singapore.. Il 29 settembre di quello stesso anno le ceneri giunsero a Genova e seppellite nel cimitero di Staglieno. L’avvocato Nicolò Lombardo e le altre vittime di Bronte, per loro buona pace si può dire che per la morte atroce del loro aguzzino e per ciò che ne conseguì, erano state vendicate alla fine dalla giustizia divina.
IGNAZIO COPPOLA